8 mar, 21
Studio Bellan
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Poco meno di cinque miliardi al mese. È il costo del nuovo sistema di ristori ipotizzato al ministero dell’Economia per compensare le perdite subite dalle attività economiche alle prese con le restrizioni anti-Covid: sistema che infatti nel nuovo decreto, atteso in consiglio dei ministri fra mercoledì e giovedì, sarebbe destinato a occuparsi solo dei mesi di gennaio e febbraio di quest’anno.
L’indicazione arriva dalle prime bozze del provvedimento circolate ieri. Si tratta di testi non definitivi, che devono ancora chiudere l’istruttoria tecnica e soprattutto quella politica. Un passaggio che si annuncia tutt’altro che semplice.
Il cuore del problema è rappresentato proprio dai costi del sostegno all’economia. La bozza ipotizza un meccanismo basato sulle differenze di fatturato fra i primi due mesi di quest’anno e lo stesso periodo del 2019. Alle partite Iva che in questo bimestre abbiano registrato una perdita di almeno il 33% arriverebbe un contributo a fondo perduto, sotto forma di bonifico o di credito d’imposta a scelta dell’interessato (come anticipato sul Sole 24 di giovedì). L’aiuto sarebbe decrescente all’aumentare del fatturato (annuo, calcolato sul 2019): 20% fino a 400mila euro, 15% fino a un milione, 10% fra uno e cinque milioni. In ogni caso il sostegno sarebbe compreso fra un minimo di mille euro (2mila per le società) e 150mila euro.
Tutto questo, spiegano i tecnici dell’Economia nella relazione tecnica, costerebbe 9,475 miliardi, cioè qualcosa più di 4,7 miliardi al mese.
La cifra è molto importante, e si spiega prima di tutto con l’abbandono del sistema dei codici Ateco che ha limitato la platea degli indennizzi di fine 2020. Ma ha delle implicazioni non banali. Primo: il decreto, in base a questa impostazione, non presenterebbe alcun meccanismo perequativo sul 2020, per venire incontro a chi è stato escluso dagli aiuti perché non rientrava nelle liste delle attività individuate con i codici Ateco o è stato penalizzato da un sistema di calcolo sempre ancorato alle perdite del solo aprile rispetto allo stesso mese del 2019, conservato fino alla fine dell’anno per accelerare la macchina degli accrediti. È un problema economico ma anche politico. Perché l’esigenza del «meccanismo perequativo» era stata ribadita dalle risoluzioni approvate in Parlamento da una maggioranza in parte non piccola sovrapponibile a quella attuale.
Ma c’è di più. La pandemia e le misure restrittive che l’accompagnano non hanno lasciato il Paese il 28 febbraio. E anzi i numeri di questi giorni, e le regioni che come Campania e Lombardia tornano a colorarsi di rosso o di «arancione rafforzato», indicano il rischio concreto che le prossime settimane siano ancora più difficili di quelle appena lasciate alle spalle. Presto quindi ci sarebbe da affrontare l’esigenza di nuovi aiuti, dai costi multimiliardari. Che potrebbero imporre un nuovo scostamento. Secondo più di una fonte interpellata dal Sole 24 Ore la questione sarebbe stata affrontata martedì in un vertice a Palazzo Chigi fra il premier Mario Draghi e il ministro dell’Economia Daniele Franco. Mancano ovviamente al momento conferme ufficiali: ma il tema è destinato a incrociare il nuovo programma di finanza pubblica che il governo sta iniziando a costruire in vista del Def da presentare entro il 10 aprile.
Anche perché i 32 miliardi di deficit approvati a gennaio sono destinati a esaurirsi in fretta per coprire le tante emergenze del decreto, che destina circa 6 miliardi al lavoro, 2 agli enti territoriali (1,25 miliardi agli enti locali e 600 milioni alle Regioni autonome), 2,1 miliardi all’acquisto dei vaccini e dedica altre risorse a reddito di cittadinanza, congedi parentali e così via. Senza dimenticare che in lista ci sono i 6,7 miliardi per coprire la parte di Transizione 4.0 uscita dal Recovery: che al momento, però, non compare nelle bozze del provvedimento.